
Che poi anche soltanto arrivarci, qui, sospesi tra la Val Roia, ovverosia deux pas dalla Francia, e la Val Nervia, è una sorta di dono, un percorso iniziatico, mistero fatto di fiducia e audacia snodato su asfalti ardimentosi, che diresti strappati all’invadenza della natura se non realizzassi, ad un certo punto, di essere tu l’ospite e non viceversa.

Mentre mi trastullo, incantato dal poggiolo su cui si affaccia Terre Bianche, in attesa dell’orario dell’appuntamento, penso che questa Valle vìola le prospettive percepibili dall’occhio umano. È come se una mano superiore avesse steso davanti all’orizzonte uno scenario verticale, perfetto, granitico e odoroso di macchia mediterranea, soprattutto di quella verbena ed euforbia che poi ritornano così cospicuamente nei vini, insieme alla sapidità delle ‘terre bianche’, ma anche marne blu, del suolo.

Stacco. Dopo poco che ci parlo concludo che Filippo Rondelli è uno di quei vignaioli ‘nati’ che si incontrano raramente, dotato di una mente lucida e tagliente che si associa normalmente alle persone sicure di sé che non si limitano a parlare, anzi, traducono tutto quello che lambiccano in risultati incontrovertibili.

Terre Bianche è il sogno al quale ha deciso di appartenere quasi per caso, se qualcuno (non io) vuole credere al caso. Sognava di diventare professore di lettere, poi la vita, con la morte prematura del padre, ha deciso diversamente. Tuttavia, come talvolta capita, nella forzatura di un’uniforme indossata per necessità c’è la scoperta di una vocazione vera. Che trova la sua realizzazione in un vino, il Rossese di Dolceacqua, irripetibile. Un vino aspro e pieno di nerbo come queste terre, un vino da militari, tra cui Andrea Doria e lo stesso Napoleone, un vino succoso, mai eccessivo, che sa di macchia mediterranea. Terre Bianche, anche grazie a vigne storiche, vecchie anche di cent’anni, sottosuoli e microclimi irripetibili e letture sensibilissime in cantina, lo trasforma in bottiglie mozzafiato, da antologia. Non soltanto Rossese, poi, perché anche Vermentino e soprattutto Pigato sono resi in versioni memorabili, senza filtri né carezzevoli inganni. Schietti e sinceri, ma anche raffinati, come le Terre Bianche meravigliose da cui originano.

Eccomi agli assaggi:
Rossese di Dolceacqua DOC 2020
Soli lieviti autoctoni per un vino che somiglia solo a sé stesso. Boccata succosa, piena, appagante, naso di geranio, ribes rosso e melograno, poi euforbia e incenso. Irresistibile.
Rossese di Dolceacqua DOC Bricco Arcagna 2019
La versione agée en barrique del Rossese vellutata, elegante, con tannini salmastri su naso di violette di campo. Persistenza irreale.
Riviera Ligure di Ponente Pigato DOC 2020
Un Pigato croccante, che sa di cedro, pesca bianca e timo, bocca tesa, compatta e di eccellente persistenza.
Arcagna Bianco 2018
L’über-Pigato di casa. Ancora pesca bianca ma poi ginestra, tocchi balsamici e bella iodatura. Bocca salata, persistente, con finale lievemente amaricato.
Riccardo Corazza